Quando il valore che diamo passa dai soldi ai metri

(quelli della distanza sociale)

L’intervista

L’ex consigliere di Stato Pietro Martinelli, classe 1934, parla a ruota libra delle condizione degli anziani, della società e sugli interrogativi sul «dopo-coronavirus»

Pietro Martinelli (già direttore dell’allora Dipartimento delle opere sociali), lei appartiene alla categoria delle persone a rischio per una questiona anagrafica. Come sta affrontando questo periodo?

«Come un’esperienza nuova e assolutamente inattesa che non avrei mai pensato di vivere. Un’esperienza drammatica, per molte persone carica di dolori, di fatiche, ma anche ricca di speranze e di eroismi. Ne avremmo fatto volentieri a meno, ma anche questa esperienza ci aiuta a capire la vita, noi stessi, gli altri».

Stare a casa è un problema o è cosciente che è una misura per proteggere in primo luogo lei e la popolazione in genere?

«Oggi isolarsi al proprio domicilio con le persone con le quali si convive è una misura razionale che è facile da capire e che va rispettata nelle modalità che sono state più volte ripetute. Rappresenta una scelta etica che trova la sua ragione d’essere nel bene comune. Ho la fortuna di poterlo fare in un bel posto, assieme a una persona affettuosa e allegra. Immagino che il sacrificio per chi è solo o vive in condizioni precarie sia molto più pesante. Di questo sacrificio bisognerà tenerne conto anche dopo».

Il coronavirus le fa paura?

«Sì, la paura naturale verso qualcosa di invisibile che ci minaccia e che non si sa quando e come finirà di minacciarci. Ma una paura che, nelle condizioni attuali, anche per un vecchio come me non diventa angoscia. Eventualmente l’angoscia la si può provare pensando al fatto che accanto al riscaldamento climatico (temporaneamente dimenticato), ai flussi migratori (temporaneamente dimenticati), al problema delle disparità crescenti (drammaticamente presenti anche nella pandemia) domani l’umanità, le nuove generazioni in particolare, si sentiranno minacciate anche dal rischio di pandemie ricorrenti».

Si concede qualche uscita in solitaria?

«Sì, con mia moglie e il nostro cane. In qualche strada di campagna nei boschi che circondano Lugano. Per fare movimento, rispettando ampiamente la distanze sociale quando si incontra qualcuno. A proposito di distanza sociale mi ha fatto sorridere constatare il cambiamento di unità di misura. Fino a ieri la distanza sociale si misurava in soldi, oggi, ai tempi del coronavirus, si misura in metri».

Come vive da nonno la distanza imposta da figli e nipoti?

«Nel nostro caso è forse l’unico aspetto veramente doloroso. Figli a nipoti abitano tutti a Lugano, a poca distanza, per cui ci trovavamo spesso a mangiare assieme, a fare passeggiate, a discutere, a ridere e scherzare, e a studiare (con i nipoti). Poi ci sono gli amici. Anche se ci si telefona spesso, si mandano messaggi, filmini e barzellette, trovarsi assieme, abbracciarsi quando ci si incontra o quando ci si lascia è un’altra cosa».

Questa pandemia cosa ricorda o cosa suggerisce a una persona che ha un’esperienza di vita come la sua?

«Sono del 1934, quindi quando è cominciata la seconda guerra mondiale avevo sei anni e quando è finita undici. Ero troppo piccolo per capire tutta la drammaticità e la precarietà di quegli anni anche se la guerra aveva smembrato la mia famiglia. Mio padre lavorava alla Brown Boveri nella Milano bombardata, mia madre lo aveva raggiunto, mentre io vivevo dai nonni materni a Zurigo e mio fratello dal nonno paterno a Lugano. La vita era precaria e questo lo capiva anche un bambino, anche se non poteva capire quanto lo fosse e quali rischi tutta l’Europa stava correndo in quegli anni. Poi tutto è cambiato e ci sono stati anni ricchi di progresso, anche sociale, e di speranza. Ma non era scontato. La precarietà di oggi ha cause molto diverse, certamente meno drammatiche e incerte, ma oggi come allora come ne usciremo è un grande punto interrogativo. Un punto interrogativo al quale dovranno rispondere la politica, l’economia e le nuove generazioni».

Quando sono emersi i primi focolai era tra coloro che vedevano l’espansione dei contagi e del pericolo o che pensavano che avrebbe avuto la durata di un temporale estivo?

«Dopo i primi giorni di marzo, quando ha cominciato a essere nota la prima serie di dati sulle persone contagiate, ospedalizzate e decedute, ho constatato che le curve crescevano dapprima in modo esponenziale, poi più o meno in modo lineare, ma che non si intravedeva ancora un punto di flesso, di cambiamento di tendenza anche perché accanto ai vecchi focolai ne spuntavano di nuovi. Intuii allora che sarebbe stata una cosa lunga. Una cosa che avrebbe creato delle emergenze sanitarie e delle emergenze economiche e (forse) finanziarie. Oggi di dati ce ne sono persino troppi, purtroppo spesso non omogenei, difficili da estrapolare per fare delle previsioni, ma complessivamente tali da non farci indulgere a un facile ottimismo. E, in effetti, malgrado le immense possibilità di calcolo di oggi, giustamente nessun politico e nessun scienziato serio lo sta facendo».

Molti over 65 hanno vissuto male lo stop a recarsi a fare la spesa. Li capisce oppure ritiene che opporsi sia stato sbagliato?

«Con mia moglie l’abbiamo accettato senza discutere e ci siamo organizzati di conseguenza, anche se capisco che un conto è accettarlo a 86 anni e un conto accettarlo a 66».

Lei è stato direttore dell’allora Dipartimento delle opere sociali. Con quale spirito oggi osserva l’azione delle nostre autorità?

«Credo che, considerata l’assoluta novità del problema, le nostre autorità cantonali e federali abbiano agito con scienza e coscienza. Il ruolo delle autorità costituite va riconosciuto e rispettato perché la pesante responsabilità di prendere delle decisioni ritenute nell’interesse comune spetta a loro. Criticarle sarebbe troppo facile per poter essere utile, mentre penso sia doveroso aiutarle con suggerimenti sorretti da conoscenza e esperienza (da competenza) ognuno nell’ambito del proprio ruolo».

Segue i ricorrenti appuntamenti informativi sullo stato del virus o preferisce staccare e pensare ad altro?

«Li ascolto, mi aggiorno e ci ragiono. Poi penso ad altro».

I partiti in questa fase osservano, qualcuno presenta timidamente qualche ricetta per il dopo coronavirus, ma in sostanza si dà fiducia al Consiglio federale e al Consiglio di Stato. Come la definirebbe: assenza di idee o maturità politica?

«A loro volta Consiglio federale e Consiglio di Stato danno fiducia agli esperti, alla conoscenza, alla scienza. È (finalmente) il riconoscimento del ruolo della competenza. La politica tornerà prepotentemente in gioco quando si tratterà di come uscire dalla crisi. Allora il confronto diventerà caldo a livello di società, sanità, socialità ed economia».

La Svizzera ha reagito alla crisi mettendo a disposizione una valanga di miliardi di franchi per non fare collassare il nostro tessuto economico. Si può dire che pochi Stati se lo possono permettere e hanno governanti con la testa sulle spalle?

«Di ricchezza al mondo ce n’è molta, ma è male distribuita. La crescita della ricchezza a partire dagli anni Ottanta è avvenuta nel segno della velocità (fisica), ma non della rapidità (mentale). Italo Calvino nella seconda delle sue “lezioni americane” tenute all’Università di Harvard nel 1984 (Italo Calvino, lezioni americane, ed. Garzanti, 1988) invita a distinguere (in letteratura) tra “velocità” e “rapidità”. Invita a riflettere sulla antica massima latina “festina lente” (affrettati lentamente). Solo l’agilità di pensiero, la prontezza di adattamento, la rapidità di saper cogliere i problemi creati dalla velocità permette di guidare la velocità stessa. Negli anni della globalizzazione questa rapidità da parte di chi deve guidare la velocità è mancata. Dopo questa pandemia occorrerà riflettere non tanto sul debito pubblico (che non riguarda solo gli Stati del sud Europa, ma anche, ad esempio, USA e Giappone) quanto sulla necessità di mettere assieme gli sforzi (miliardi compresi) per uno sviluppo diverso che, rispetto alla velocità, privilegi la rapidità nel saper cogliere i campanelli d’allarme (ambientali, sanitari, sociali) che la velocità fa risuonare».

Come vede la crisi economica che, nonostante i soldi iniettati, toccherà un po’ tutti?

«Forse si potrà contare anche sull’euforia che segue uno scampato pericolo per far ripartire i consumi. Ma forse si comincerà a capire meglio anche il ruolo dello Stato e quanti danni hanno prodotto l’evasione e l’elusione di imposta. Per il resto mi rifaccio alla risposta precedente».

C’è poi l’aspetto sociale: il dopo-coronavirus sarà come il prima-coronavirus. È d’accordo?

«Spero di no. La solidarietà nel dopoguerra ha prodotto “les trente glorieuses”, lo stato sociale e, in Svizzera, venti anni dopo la sua iscrizione nelle Costituzione e grazie a un “macchiavello”, l’AVS. Questa non è stata una guerra, ma in un certo senso potrebbe comunque essere un’occasione (almeno per qualche tempo) per orientare in modo diverso produzione e distribuzione. In particolare un’occasione per l’Europa per introdurre una fiscalità e una politica finanziaria comune. Un’occasione per decidere se vuole diventare grande o se preferisce morire».

Da un giorno all’altro abbiamo cambiato le nostre abitudini e i comportamenti nei confronti del prossimo. Come potremo uscire da questa condizione?

«Le nostre abitudini sono cambiate nel senso che abbiamo tagliato i ponti con gli altri, ma non il desiderio degli altri. Il senso di frustrazione che stiamo vivendo potrebbe anzi produrre una maggiore comprensione delle necessità degli altri».

La diffidenza nei confronti del prossimo diventerà la regola?

«Spero nell’opposto. Spero che la mancanza temporanea del prossimo aumenti il sentimento di bene comune».